Screening, formazione e primo soccorso. Sono le ricette che consentono di minimizzare i rischi di eventi cardiaci estremi, come quello a cui abbiamo assistito domenica 1 dicembre, quando il calciatore della Fiorentina Edoardo Bove è crollato a terra e i compagni e il personale sanitario a soccorrerlo sul campo da gioco. É solo l’ultimo di una serie di arresti cardiaci che si sono verificati negli stadi italiani e internazionali nel corso degli anni.
Alcuni con esiti fatali, altri che hanno avuto un lieto fine, come nel caso di Bove. Ma gli episodi che vediamo sotto i riflettori sono solo una parte, situazioni simili accadono quasi ogni domenica in tutte le competizioni, giovanili e non, nel calcio e in altri sport. I dati infatti mostrano come circa un ragazzo su duecento soffra di patologie che potrebbero degenerare in un evento estremo, che ne metta a rischio la vita
L’importanza dello screening
Negli ultimi anni l’attenzione verso il fenomeno delle morti improvvise nello sport è cresciuta, gli atleti sono più controllati e si cerca di ridurre al minimo i rischi di eventi tragici. Uno studio condotto dall’università di Padova ha dimostrato che dal 1982, quando fu introdotto lo screening medico-sportivo, in Veneto l’incidenza delle morti improvvise tra gli atleti si sia ridotta del 90%. «Il dato interessante – spiega il professor Alessandro Zorzi, responsabile dell’Ambulatorio di Cardiologia dello Sport dell’Azienda Ospedale /Università di Padova– è che tale decremento non si è osservato tra i non atleti».
Arresti cardiaci nello sport, il prof Zorzi: “Manca una cultura del soccorso”
I controlli permettono infatti di individuare tempestivamente eventuali patologie cardiache nei ragazzi che praticano sport agonistico. «Tra i giovani che si sottopongono a una visita medico-sportiva – prosegue Zorzi – circa uno su duecento presenta una patologia da cui possono scaturire aritmie gravi». Esattamente quello che è successo a Bove e ad altri prima lui.
Tramite lo screening e le visite sotto sforzo, tra le altre cose, spesso si riescono a identificare le cicatrici nel ventricolo sinistro, che possono essere tra le cause di fenomeni estremi. «Se sarà confermato, quello di Bove non sarebbe il primo caso di un atleta professionista che soffre di eventi gravi a causa di questa patologia. Proseguendo nella ricerca, l’obiettivo ora è capire chi, avendo una cicatrice, potrebbe continuare a giocare in sicurezza e chi invece è particolarmente a rischio».
Il defibrillatore interno
Ogni volta che si verifica un arresto cardiaco in campo si riapre il dibattito sui defibrillatori sottocutanei, gli apparecchi che da protocollo internazionale vengono impiantati a questa tipologia di pazienti. Spesso si è detto che tale operazione in Italia precluda a prescindere la concessione dell’idoneità sportiva.
«Il defibrillatore in sé non è l’elemento dirimente in questi casi. Il problema è la causa che ha portato all’impianto dello stesso: in presenza di una malattia che contempli il rischio di nuove aritmie gravi, in Italia la tutela della salute del paziente è prevalente sulla libertà di scelta del singolo, a differenza di quanto accade all’estero», spiega Zorzi. È il motivo, ad esempio, per cui Christian Eriksen, il calciatore del Manchester United che durante Euro 2020 fu vittima di un arresto cardiaco, non può essere tesserato da società italiane ma continua a giocare all’estero e nelle competizioni internazionali.
Gli effetti del Covid sul cuore
In questi giorni in molti si sono anche soffermati sugli effetti che il Covid può avere sul corretto funzionamento cardiaco. Secondo il prof Zorzi, questi sarebbero molto rari e comunque ristretti alle infezioni più gravi : «Nei giovani sportivi con malattia da Covid simil-influenzale, il rischio di una miocardite è inferiore allo 0.5%. Il pericolo, piuttosto, è interpretare qualsiasi miocardite nata nel periodo della pandemia come conseguenza del Covid, sottovalutando altri fattori».
I comportamenti corretti
Malgrado siano stati fatti senza dubbio passi in avanti, c’è ancora tanto da fare sotto il profilo della formazione al primo soccorso. Esemplificativo è il caso di Cataldi, il compagno che per primo a provato a salvare Bove mettendogli le mani in bocca.
«Malgrado le buone intenzioni – spiega ancora Zorzi – in presenza di un soggetto con un’aritmia grave quel gesto non serve a nulla: anzi, il rischio è di ostacolare i soccorsi e farsi male». Decisivo è invece il massaggio cardiaco. «Chi ne riceve uno ha il triplo di possibilità di sopravvivere», sottolinea, aggiungendo come l’altro elemento chiave sia il defibrillatore, che aumenta di 10 volte le speranze di sopravvivenza. «Serve però che le persone abbiano un minimo di formazione e sappiano cosa va fatto e cosa no», conclude il prof. Zorzi
I precedenti
Edoardo Bove non è il primo calciatore a subire un arresto cardiaco in campo. C’è chi ce l’ha fatta come lui (sopravvissuti anche Manfredonia, Grassadonia ed Eriksen), e c’è chi invece sul rettangolo verde ha perso tragicamente la vita (Curi, Puerta e Morosini) tra gli esempi più eclatanti. Ecco, in ordine cronologico, una lista dei casi di arresti cardiaci in campo più rappresentativi nel calcio italiano e internazionale.
A sinistra Christian Eriksen, a destra in alto Piermario Morosini, in basso Lionello Manfredonia
Aveva 24 anni il centrocampista del Perugia quando, il 30 ottobre del 1977, si accasciò al suolo durante la sfida casalinga contro la Juventus. I medici del Perugia gli praticarono due iniezioni, il massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca, ma il battito rimase disturbato. Inutile la corsa all’ospedale dove morì dopo pochi minuti. Oggi lo stadio comunale del capoluogo umbro porta il suo nome.
Dodici anni più tardi, il 30 dicembre 1989, durante un Roma-Bologna allo stadio Olimpico il giallorosso Lionello Manfredonia rimane a terra per cinque lunghi minuti. Si rivelano determinanti i soccorsi prestati da Bruno Giordano e del massaggiatore della Roma Giorgio Rossi che, con un massaggio cardiaco salvano la vita al centrocampista. Manfredonia si risveglierà due giorni dopo dal coma e sarà costretto al ritiro dall’attività agonistica.
Celebre anche l’episodio che ha coinvolto Gianluca Grassadonia durante un Udinese-Cagliari del 29 novembre 1998. Dopo un duro scontro con Thomas Locatelli il difensore degli ospiti viene colto da un arresto cardio-circolatorio, perdendo i sensi. Provvidenziale l’intervento dello staff del portiere dei sardi Alessio Scarpi, che tiene in vita il compagno tramite la respirazione bocca a bocca, in attesa del massaggio cardiaco praticato dall’allora medico sociale dell’Udinese. L’episodio passa alla storia anche perché fu la prima volta che la Gazzetta dello Sport assegnò un 10 in pagella: “Salva una vita, non un gol”, la motivazione con cui Alessio Scarpi ottenne tale riconoscimento.
Il 22enne giocatore del Siviglia morì il 28 agosto 2007, dopo gli attacchi cardiaci di cui soffrì durante un Siviglia-Getafe di tre giorni prima. L’autopsia confermerà la cardiomiopatia ventricolare destra aritmogena, che è spesso causa di morte improvvisa tra i giovani ma che può essere diagnosticata in anticipo.
Particolarmente tragico il caso di Piermario Morosini, il calciatore del Livorno che perse la vita a 25 anni durante un Pescara-Livorno del 14 aprile 2012. ll soccorso di medici e compagni avvenne senza il ricorso a un defibrillatore, mancanza che si rivelò fatale. La causa dell’infarto fu una rara malattia ereditaria, la cardiomiopatia aritmogena, riscontrata durante l’autopsia.
Grosso sospiro di sollievo invece quello per Christian Eriksen, colpito da un arresto cardiaco mentre era impegnato con la sua Danimarca nel match di Euro 2020 contro la Finlandia. Dopo lo spavento iniziale (rimase a terra privo di sensi per circa minuti), riuscì a salvarsi. Come detto, gli venne impiantato un defibrillatore sottocutaneo, che all’epoca gli impedì di continuare a giocare in Italia con l’Inter, ma che tutt’oggi gli permette di farlo in Premier League e in tutte le competizioni Uefa.
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