L’analisi del presidente di Adapt di Modena:«La contrazione emiliano-romagnola va in parallelo con quella della Germania»
È il mercato del lavoro che reagisce a un ciclo economico di contrazione, più complesso di quanto sembra. E comunque — è lapidario Francesco Seghezzi, presidente dell’associazione Adapt di Modena — l’impennata degli ammortizzatori sociali attivati nel 2024 in Emilia-Romagna «è un dato che deve preoccupare».
Può anche andare peggio?
«Non mi scandalizzerei se le imprese cominciassero a non rinnovare i contratti a termine. Anzi, è un fenomeno già in atto ma meno visibile perché tecnicamente non si tratta di licenziamenti».
Cosa ha causato un ricorso così massiccio agli ammortizzatori sociali?
«Semplicemente un calo della produzione industriale in tutta Italia, che naturalmente si ripercuote con cifre significative nelle regioni più economicamente avanzate. E il mercato del lavoro ha reagito di conseguenza».
Il 2024 quindi è stato l’anno nero?
«In realtà è da 22 mesi che il calo è progressivo, ma le aziende aspettano prima di mettere in atto certi meccanismi. Ogni calo è percepito come temporaneo».
Lo è? Si tratta di capire quando ci sarà la ripresa.
«È un ciclo economico, e come tale è soggetto a tendenze, alti e bassi. Posto che la ripresa andrebbe sostenuta, provocata, per evitare che gli ammortizzatori diventino esuberi».
In regione sono state colpite soprattutto piccole imprese, artigianato, Tac (tessile, abbigliamento, calzature), meccanica e automotive, industria alimentare. Cosa le accomuna in questo ciclo negativo?
«È una dinamica legata a una situazione internazionale, un fenomeno macro, ma il traino è la cisi dell’automotive. La contrazione emiliano-romagnola va in parallelo con quella della Germania. Qua abbiamo piccole aziende che spesso sono fornitori unici di colossi. Colossi che, tra l’altro, in molti casi stanno in Germania».
Le grandi però, come si dice, hanno le spalle larghe?
«Ovviamente le più piccole fanno fatica. La gestione del green deal europeo e il ruolo della Cina che si sta imponendo come player centrale delle auto elettriche rende necessarie trasformazione, innovazione e investimenti importanti».
Le Pmi non possono permetterseli?
«L’inflazione ha ridotto gli investimenti in generale, meno investimenti significa meno prodotti. Il fatto che le imprese sono interconnesse fa da moltiplicatore. Ma c’è una forte polarizzazione, se ci sono Pmi costrette alla cig, ci sono altre che producono, eccome, e faticano a trovare le competenze di cui hanno bisogno».
Questa situazione come impatta sul mercato del lavoro?
«L’effetto più “curioso” è un aumento degli occupati, ma la forza lavoro invecchia. Una ricerca Adapt rivela un aumento di contratti a tempo indeterminato, ma a beneficiarne sono soprattutto over 50».
E i giovani?
«Detto brutalmente: non ci sono. Sono oggettivamente pochi. C’è un calo demografico importante e ancora si fatica a reperire figure specializzate, in grado di fare innovazione. Se le realtà meno strutturate ricorrono agli ammortizzatori, le altre si contendono la forza lavoro».
A parte le dinamiche congiunturali, cosa potrebbe portare a un equilibrio?
«Prima di tutto le imprese devono crescere, anche unendosi. L’Italia, come la regione, sconta un gap competitivo con il resto d’Europa anche perche fonda la sua economia su aziende di piccole dimensioni. E servirebbero molti interventi di politica industriale…».
Ne dica uno.
«Puntare su un settore. A livello europeo. Draghi lo ha ripetuto più volte, decidere dove diventare “campioni” ma non sembra sia stato ascoltato. Nel bene e nel male fa bene Trump che concentrerà le risorse sull’intelligenza artificiale».
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