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Brasile tra libero mercato, estrattivismo e agrobusiness. Intervista ad Antonio Lupo – Parte I


Il Brasile vive una crisi ecologica ed ambientale senza precedenti e le implicazioni politiche e geopolitiche sono più complicate di quello che appare. Ne parliamo con Antonio Lupo, oncologo ed ematologo ex-aiuto primario all’Ospedale Niguarda di Milano, membro di Medici per l’Ambiente -ISDE e del Comitato Amigos Sem Terra Italia. Ambientalista da molti anni a fianco del Movimento Sem Terra in Brasile, con cui ha avuto esperienza di medicina territoriale; del Movimento La Via Campesina, una delle più grandi organizzazioni contadine e ambientaliste del Sud del Mondo a cui aderiscono più di 200 milioni di contadini e di Navdanya International, organizzazione ecologista e contadina internazionale fondata dall’attivista indiana Vandana Shiva, che si occupa di agroecologia e conservazioni dei semi.

Nonostante la fine di Bolsonaro e la vittoria di Lula ormai due anni fa, come vedi il Brasile oggi?

La situazione in Brasile è difficile e complessa. Il Brasile è un Paese enorme, 850 milioni di ettari, grande 27 volte l’Italia, con relativamente poca popolazione, 203 milioni ( cens. 2022), e con una fortissima urbanizzazione 87,6 % (2022). Nelle megalopoli, le favelas (che non sono le periferie!) sono raddoppiate – dal 2010 al 2022 – da 6mila a 12mila, e nello stesso periodo gli abitanti da 6 a oltre 12 milioni.

Nei primi due anni del governo Lula la grave insicurezza alimentare, che ha colpito 17,2 milioni di brasiliani nel 2022, è scesa a 2,5 milioni, passando dall’8% all’1,2% della popolazione. Il Ministro dello Sviluppo Sociale e della Lotta contro la Fame (MDS), Wellington Dias, ha dichiarato che il reddito è migliorato: “Il reddito di tutte le persone è cresciuto dell’11,5% e il reddito dei più poveri è cresciuto del 38,6%”. La popolazione attiva è di 108 milioni di persone, quella femminile il 43,5% (dati 2023 del Calendario Atlante De Agostini 2025), ma il politologo Valério Arcary ha ricordato che “ci sono 38 milioni di lavori in regola, anche se la stragrande maggioranza di questi sono lavori mal pagati. Ma allo stesso tempo si assiste a un’espansione dell’informalità. Abbiamo già almeno 40 milioni di persone che lavorano nel settore informale”.

Nonostante le grandi distruzioni operate dal colonialismo dall’inizio ad oggi e gli effetti pesanti del riscaldamento globale, il Brasile ha ancora enormi ricchezze naturali, non solo in Amazzonia. Certamente ha un ruolo fondamentale in America Latina nel settore industriale, soprattutto in 3 settori: minerario, manifatturiero e dei servizi agroindustriali. Il Paese sfrutta minerali come ferro, oro, argento, petrolio, carbone, stagno e diamanti. Le più grandi compagnie minerarie del Paese – Anglo American, Vale e Alcoa – sono tutte private e multinazionali. L’unica industria ancora statale è Petrobras, che vuole essere un hub del carbonfossile per tutta l’America Latina, ma il Brasile (come l’Africa) è sotto il mirino dell’estrattivismo minerario e agricolo di tutte le grandi potenze, compreso quelle dei Brics, in primis la Cina.

Il modello BRICS è sicuramente un’alternativa all’unipolarismo atlantista a trazione USA, eppure si basa su export di materie prime contro l’import di tecnologia. E’ veramente una soluzione al modello capitalista ed estrattivista?

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Possiamo far risalire al 2010 la nascita dei BRICS, quando il Sudafrica si aggiunse al Gruppo BRIC (Cina, Russia, India e Brasile), allargatosi nel 2024 a vari Paesi – Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran. Dal 1 gennaio 2025 altri 9 Paesi – Bielorussia, Bolivia, Cuba, Indonesia, Kazakistan, Malesia, Thailandia, Uganda e Uzbekistan – sono diventati partner in attesa di ammissione definitiva. Altri 4 Paesi – Algeria, Nigeria, Vietnam e Turchia – sono stati invitati ad aderire. Rappresentano circa 4 miliardi di abitanti, cioè la metà della popolazione del pianeta, su un territorio di 40 milioni di chilometri quadrati. Attualmente i BRICS rappresentano il 41,4% del PIL mondiale, il 37% del commercio globale ed il 40% della produzione petrolifera mondiale.

Non sono sicuramente Paesi né anticapitalisti né sovranisti né anti-globalizzazione: la maggior parte ha un forte estrattivismo di materie prime minerarie (petrolio, gas, metalli, minerali ecc) e agricole che esporta, ma questo non esclude che alcuni di loro abbiano una forte insicurezza alimentare. Per esempio l’India, il Paese con maggior popolazione al mondo, si è classificata al 111° posto su 125 Paesi nell’Indice Globale della Fame (GHI) 2023 e all’ultimo posto della graduatoria mondiale riguardo la malnutrizione “acuta” dei minori: il tasso infatti è del 18.7%. Impossibile definirli “Paesi democratici”, basta pensare alla persistenza delle caste e alla caccia ai musulmani del governo nazionalista-indù di Modi, al regime di Al-Sisi in Egitto o alla teocrazia in Iran. E anche dal punto di vista delle alleanze politiche, non tutti i Paesi BRICS sono anti-USA, ma sono concordi solo sul multipolarismo: ovvero tentare di allentare il giogo del monopolio del dollaro nei mercati e nella finanza, che tutti, più o meno, continuano a subire.

Qual è il ruolo attuale della Cina nei BRICS e soprattutto quale paradigma di sviluppo sta spingendo in Brasile?

A mio parere la Cina non è una democrazia, ma è l’unico Stato-Nazione che “governa”, cioè programma, decide e si relaziona in parte con le sue 22 provincie e le municipalità, pur rimanendo all’interno di una logica di capitalismo di Stato. Il suo ruolo nei BRICS è centrale, anche per rompere la dipendenza dei vari Paesi dal dollaro come moneta dominante, per l’equilibrio tra il suo import dei prodotti dell’estrattivismo minerario-agricolo, soprattutto dai Paesi dell’Africa e dell’America Latina, e l’export e gli investimenti e la fornitura di prodotti tecnologici di vario livello, anche molto alto. Riguardo al Brasile, basta tenere ben presente che la Cina nel 2024 ha importato 69 milioni di tonnellate di soia OGM dal Brasile: i due terzi dei 92 milioni di tonnellate che il Brasile ha esportato, sul totale di 147 milioni prodotte in quell’anno (solo 52 milioni sono state consumate in Brasile!). E per produrre ed esportare soia OGM, il Brasile – con il maggior consumo di pesticidi a livello mondiale – utilizza più del 50% di tutti gli antiparassitari venduti nel Paese. I prodotti chimici più utilizzati sono gli erbicidi a base di glifosato, ma anche altri prodotti di Syngenta (Svizzera -Cina), Bayer e BASF (Germania) messi al bando in Europa. Vengono usati anche insetticidi come il Larvin, prodotto da venduto da Bayer Brasile, e contenente l’agente nervino e cancerogeno Thiodicarb, non approvato in Europa.

In Brasile su una superficie totale coltivata di 88 milioni ettari, 44 milioni di ettari sono utilizzati per coltivare soia OGM, soprattutto in Amazzonia, nel Cerrado e nel Mato Grosso di Blairo Maggi, il re della soia. Nel 1992 la soia rappresentava circa l’8% dei raccolti del Brasile. Nel 2002 si sono prodotte 120 milioni di tonnellate di soia all’anno su 40 milioni di ettari, con un raddoppio della terra utilizzata rispetto al 2008, 21,2 milioni di ettari, e un aumento di oltre 10 milioni ettari anche rispetto al 2015. Il Brasile è uno dei pochi Paesi che esporta in Cina molto più di quello che importa, con un saldo decisamente positivo: fino a 43,4 miliardi di dollari nel 2021.

E questo è un motivo per ricevere un trattamento di riguardo, sostiene Andréa Curiacos Bertolini, consigliera per l’agricoltura del governo brasiliano tra il 2019 e il 2023, ai tempi di Jair Bolsonaro. “Da un punto di vista strategico la Cina dipende dal Brasile” – affermava. “Per i cinesi l’alternativa sarebbe comprare dagli statunitensi. Ma a causa dell’attuale guerra commerciale preferiscono trattare con noi”.

Attualmente Brasile e Cina stanno collaborando anche per progetti e di produzione e utilizzo in Brasile di trattori e biofertilizzanti già prodotti e utilizzati in Cina.

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