La nostra rubrica «Dalla parte di lei» dedica questo mese il suo spazio ad una figura che ebbe una forte rilevanza nell’Ottocento torinese e piemontese ma che venne poi sepolta dalla polvere dell’oblio. Eppure la marchesa Giulia Colbert Faletti di Barolo ha lasciato una traccia significativa del suo pensiero e della sua azione nei confronti delle donne che merita di essere conosciuta e considerata in tutta la sua portata innovativa, la cui ‘modernità interroga anche il nostro presente.
Nelle pratiche filantropiche che caratterizzarono la sua presenza nel mondo, Giulia di Barolo rivolse uno sguardo amorevole e di cura verso donne marginalizzate, criminalizzate, respinte dal consorzio civile, porgendo loro una mano e una possibilità di riscatto attraverso il lavoro, l’istruzione e il recupero di una dimensione interiore. Lo fece prendendosi cura, in primis, dei loro corpi martoriati, violati, offesi o malati, avvicinandosi ad esse per condividerne il dolore e la sofferenza, per comunicare sentimenti di partecipazione, condivisione, solidarietà, attraverso una “carezza” capace di arrivare alle loro anime.
Con intelligenza e lungimiranza, spendendo molto di sé e delle risorse economiche legate ai suoi privilegi di casta, Giulia si fece promotrice di numerose iniziative tese a comunicare a queste donne, respinte ai margini della società, forza e fiducia, guidandole verso percorsi di consapevolezza. Acquisendo con gli anni competenza e sicurezza, grazie anche all’esperienza del fare, Giulia intuì la necessità di dar vita a forme nuove di socialità femminile, dapprima dentro le carceri, poi proponendo dei ‘luoghi protetti’ chiamati Rifugi, creando così modalità nuove di vivere insieme.
Narra il suo primo e illustre biografo, Silvio Pellico, che Giulia scoprì casualmente le condizioni disumane in cui erano costretti a vivere carcerati e carcerate nella Torino della prima metà dell’Ottocento e ne rimase sconvolta. Da allora si spese per migliorarne le condizioni, soprattutto delle donne, perché venisse riservato loro un trattamento più umano, per restituire loro una dignità umana e spirituale. Oltre al miglioramento delle condizioni materiali, Giulia di Barolo si preoccupò di realizzare il riscatto morale di queste donne, fornendo loro un’istruzione e avviandole ad un lavoro assecondando le loro inclinazioni personali.
Con grande anticipo sui tempi, si preoccupò di assistere le donne quando uscivano dal carcere, per accompagnarle amorevolmente verso il loro reinserimento sociale. Sorsero così i Rifugi e, successivamente, il Monastero delle Maddalene per coloro che sceglievano una vita ritirata dal mondo. La sua attività di correzione e di educazione si estese anche alle fanciulle abbandonate che vennero denominate le Maddalenine, con evidente richiamo alla figura evangelica della Maddalena, la peccatrice divenuta la prima discepola di Cristo.
Giulia di Barolo, due secoli fa, aveva compreso che per le donne carcerate la sofferenza è più difficile e aspra, quindi necessita di maggiori tutele e attenzioni. Oggi sembra essersi perduta questa differente attenzione verso le donne detenute. Forse perché numericamente sono meno del 5% dei detenuti complessivi? Certo il “decreto sicurezza”, che sta per completare il suo iter parlamentare, sembra voler penalizzare ulteriormente le madri costrette a vivere in carcere con i loro figli: l’articolo 15 del decreto in discussione vorrebbe rendere facoltativo – e non più obbligatorio – il rinvio della pena per le neo-madri detenute. Insomma, Giulia di Barolo con le sue iniziative a favore delle detenute è stata un’antesignana a cui va riconosciuto il merito di aver cooperato fattivamente per far riconoscere la dignità della donna nelle carceri. Per questo è importante che di lei si conservi memoria!
Luisa Ricaldone ha insegnato Letteratura italiana contemporanea all’Università degli studi di Torino, fa parte della Società Italiana delle Letterate (SIL), di cui è stata anche presidente, ed è nella giuria del Premio “Lingua Madre”, arrivato quest’anno alla XX edizione.
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Il 7 marzo 2023 presso l’Housing Giulia, nell’ambito delle manifestazioni per il 200° anniversario della nascita del Distretto Sociale dell’Opera Barolo, ha avuto luogo un convegno a cura di Pompeo Vagliani (Fondazione Tancredi di Barolo) dedicato a Giulia di Barolo, al suo entourage e alle numerose istituzioni delle quali fu promotrice e fondatrice, dal titolo: Anniversario Regie Patenti 1823. La nascita del Distretto Sociale Barolo: storia, cultura e società.
Juliette Françoise Victurnie Colbert nacque il 27 giugno 1786 nel castello di famiglia di Maulévrier (Maine-et-Loire) come terzogenita e ultima figlia del marchese Edouard Victurnien-Charles-René, discendente per via collaterale da Jean-Baptiste Colbert, ministro di Luigi XIV, e della contessa Anne-Marie de Quengo de Crenolle, sua prima moglie. Durante la Rivoluzione francese e la guerra di Vandea (Maulévrier era situato al confine tra Maine-et-Loire e Vandea), il loro castello fu saccheggiato e dato alle fiamme e diversi loro parenti furono ghigliottinati. Dopo vari spostamenti in Olanda e in Germania, la famiglia si stabilì a Coblenza, una delle roccaforti della nobiltà francese emigrata. Il padre (la madre morì in esilio nell’anno 1795) impartì ai figli una educazione religiosa e per Giulia chiamò scelti maestri, dai quali la giovane ricevette una cultura ampia e approfondita; in particolare studiò le lingue e le letterature francese, inglese, tedesca, italiana e latina, la storia, la geografia e la filosofia. Va da sé che ideologicamente subì l’influenza dell’ambiente, che la portò ad abbracciare rigide convinzioni monarchiche e legittimiste. Quando nel 1802 Napoleone Bonaparte concesse l’amnistia a quasi tutti gli emigrati del 1792, i Colbert tornarono in Francia e frequentarono assiduamente la corte imperiale, dove Giulia incontrò nel 1804 l’ultimo discendente di una delle più ricche e antiche famiglie piemontesi, Carlo Tancredi Falletti di Barolo che sposò nel 1807. La giovane coppia dimorò a Torino nel palazzo dei Barolo, trascorrendo tuttavia diversi mesi all’anno a Parigi e spesso viaggiando.
Durante i soggiorni parigini i Barolo strinsero relazioni ad altissimo livello nel mondo politico e culturale, alcune delle quali particolarmente importanti per l’ascendente che esercitarono sulla successiva azione filantropica di Giulia, che poté contare sempre sull’aiuto e la solidarietà di Tancredi nelle sue innumerevoli iniziative. La prima delle quali, nel 1815, riguardò le carceri. Ad eccezione di alcuni rapporti epistolari con Elisabeth Fry, che nel carcere femminile londinese di Newgate condusse un esperimento analogo, l’azione di Giulia nelle carceri risulta del tutto originale e all’avanguardia. Il contatto con un’altra grave piaga sociale, quella delle ragazze madri, la indusse ad aprire un Refugio, aperto a tutte le donne pentite, che attraverso il lavoro e la preghiera desiderassero reinserirsi nella società.
Dal Rifugio al Monastero delle Maddalene: un istituto destinato ad accogliere le donne che intendessero dedicarsi a una vita ritirata, di pentimento e di lavoro; confortata dai consigli dell’arcivescovo di Torino e con la protezione di Carlo Alberto, nel 1833 diede vita anche a questa iniziativa. Alla quale seguirono altre, fra cui quella degli asili d’infanzia.
Il mondo di riferimento di Giulia di Barolo sono le carcerate e le prostitute. Quella “curiosità” verso la colpa di cui Giulia stessa parla in suo breve scritto autobiografico e che la storica Daniela Maldini ha definito «quasi morbosa», si rivolge soprattutto alle donne. D’altra parte fra i poveri, erano le donne a prevalere numericamente, e questo si spiega alla luce delle particolari condizioni dell’occupazione femminile di quegli anni, che era poco remunerativa, spesso saltuaria e stagionale, e piegata soprattutto a integrare il bilancio familiare. Giulia di Barolo cercò di ovviare al problema con le “famiglie operaie”, ospitando nel proprio palazzo la prima famiglia, composta da una piccola comunità di 12-15 “figlie”, poste sotto la direzione di una “madre” (1847). Ogni figlia restava nella famiglia, presso padroni di provata rettitudine, sei anni, cioè fino a quando non avesse raggiunto una piena capacità lavorativa. In un’epoca che considerava con sospetto la vita fuori casa delle donne e il loro lavoro, questo tipo di istituto costituiva un notevole passo avanti.
Nella città di Alba fondò un Collegio che ospitava bambini cattolici di qualsiasi ceto che, «per scarsezza di fortuna, non fossero in grado di procurarsi una buona educazione negli altri collegi» (art. 62 del testamento). Mentre per ciascuna fanciulla era previsto l’avviamento a una attività «secondo le disposizioni che dimostra per questo o quello fra i mestieri cui possono applicarsi le donne» (art. 64).
Insieme a un lavoro capillare di igienizzazione e di miglioramento delle condizioni di vita, per le carcerate Giulia aveva previsto un piano di insegnamento che cominciava dall’apprendimento della lettura, per rivolgersi poi alla conoscenza del catechismo e, per le più avanzate, del Vangelo, nell’ambito di una vera e propria riforma carceraria. Impossibile ricordare tutte le istituzioni con le quali la Marchesa si prefiggeva lo scopo di sollevare dalla povertà, rieducare, reintegrare nel tessuto sociale e nei conventi le donne, costrette a delinquere o a prostituirsi per sopravvivere. Totalizzante era l’impianto e il controllo su un disegno improntato alla carità e alla religiosità nei confronti dei poveri, dei sofferenti e degli ignoranti con un riguardo molto particolare alla parte femminile della popolazione che negli anni in cui visse la marchesa abitava a Torino e in Piemonte. L’attenzione riservata alle giovani (ma anche ai giovani) fu di una enorme utilità, tanto da cambiare, in certi casi radicalmente, la condizione di tanti e tante emarginate. Ecco dove sta la straordinaria lungimiranza di Giulia di Barolo: da una parte nel privilegiare l’intelligenza al di là del censo, dall’altra nel riservare attenzione e ascolto alle inclinazioni di ciascuna donna.
Nelle numerose biografie su Giulia di Barolo scritte nel tempo ricorrono alcuni termini costitutivi delle sue linee pedagogiche. Ricordiamone tre: umiltà, carità, tenerezza. E nelle stesse pagine viene detto che il titolo che più conviene a Giulia è quello di “madre”. Leggiamo un esempio: «Venite anche a me con filiale confidenza e spero, per grazia di Dio, che mi troverete sempre, un cuore di madre, come mi pare di averlo . […] Vorrei poter allungare le mie braccia fino a te, prendere il tuo povero capo addolorato corporalmente e spiritualmente e con carezze e dolci parole di madre farti un po’ di bene».[1] Nel ricchissimo epistolario che Suor Ave Tago ha riprodotto nel volume Giulia Colbert di Barolo Madre dei poveri compare sovente la firma «nonna Giulietta», con ogni probabilità in riferimento all’età più matura della mittente. È indubbio che l’appellativo di madre (o sorella) riferito alle suore era e credo sia tutt’oggi usuale, ma è vero che il termine di figlia, riferito alle carcerate e alle prostitute pare instaurare un ordine simbolico – direbbe Luisa Muraro – che, riconoscendo ciascuna donna figlia di una madre, che a propria volta è figlia di un’altra madre, e così via, si sottrae all’ordine maschile – come scrive appunto Muraro.[2] E in questo continuum femminile si dà valore alla maternità – cosa fondamentale per Giulia che non ebbe figli né figlie – che non è solo un fatto biologico.
La pratica della bontà, della misericordia, la madre come componente della propria identità la porta a indicare nella carezza una regola pedagogico-educativa. Ave Tago scrive che la parola “carezza” ricorre ben 152 volte nelle lettere, e sottolinea che in un ambiente riservato come quello torinese, «questo gesto può ritenersi alquanto insolito» (p. 153). Riuscire ad educare alla dolcezza donne per le quali le violenze probabilmente subite e poi agite anche nelle relazioni fra loro, è un principio di grandissima importanza, che conduce successivamente a essere in grado a propria volta di esprimere quella dolcezza, alla quale quelle donne di certo non avevano avuto modo di autorizzarsi. Nelle stesse lettere viene sottolineata la vicinanza corporea, che attinge all’idea che il corpo sia fortemente coinvolto nella relazione educativa.
Dal corpo alla malattia: in una lettera a suor Alfonsa Graglia, Giulia cita l’omeopatia sottolineando il fatto che le «saluti […] nel monastero» vanno bene «grazie all’omeopatia»; e questo nonostante abbia a che fare con molti «roclò», cioè rottami in dialetto piemontese! (p. 332). Anche a questo pensò Giulia, provvedendo a un «ospedaletto» che ospitasse «40 o 60 fanciulle ammalate o storpie» (art. 56 del testamento). In una lettera a Suor Giulia Gerbi del 24 dicembre 1851, la marchesa chiede alla sua interlocutrice di dare l’esempio dell’obbedienza «a tutte le prescrizioni del medico» e aggiunge: «Dunque obbedienza al Confessore e alle Costituzioni per lo spirituale, e obbedienza al medico per il corporale. Temo che qualche volta se voi tenete per dovere la prima obbedienza, non abbiate tanto rispetto per la seconda, parimenti dovuta» (p. 325).
Va da sé che l’attenzione al corpo si esprime anche nelle indicazioni pedagogiche di Giulia, in particolare in quelle che riguardano le prostitute, per le quali il corpo è stato lo strumento del peccato, ed è dal corpo che occorre partire, prima di tutto curandolo, poi trasformandolo attraverso le «carezze» e guarendolo così dall’altra malattia, quella spirituale. La sinergia fra psiche e corpo – per dirla in termini moderni e laici – è sempre presente negli scritti e nelle intenzioni di Giulia, che trova nei rigidi rituali imposti alle carcerate, la via al risanamento e alla redenzione. Tale impostazione non incontrò il favore della politica: il Primo Segretario per gli Interni, conte Tonduti della Escarena, in una lettera a Giulia di Barolo rispose che «sans quelque violence on ne ramène pas à la vertu et à la raison des âmes perverties et corrompues» (pp. 225-229). Il tempo tuttavia darà ragione a lei.
Ci resta da dire che, se le donne di Giulia devono essere obbedienti e umili, lei agisce in tutt’altro modo: è volitiva, libera, mobile, risponde a tono agli uomini politici dell’epoca. Giulia ha amore per la libertà, non si sottopone alle leggi del potere, probabilmente perché possiede i mezzi economici, culturali e di rango, anche se nelle prospettive educative rimane legata – e non potrebbe essere diversamente – alla tradizionale suddivisione dei ruoli tra donne e uomini.
Prova ulteriore ne sono Memorie, appunti e pensieri che contengono, fra l’altro, tre racconti- testimonianze di viaggi all’estero, nei quali, accanto alla descrizione in chiave romantica della natura e dei paesaggi montani, agiscono giovani donne e giovani uomini secondo dinamiche che riproducono i profili della sua idea di società, di famiglia e di convivenza.
Scrisse molto Giulia di Barolo, spinta non solo da impulsi interiori ma dai molteplici impegni e responsabilità. Si tratta di scritti autobiografici, che vanno dai ricordi di viaggi (come il diario del viaggio in Lombardia e Veneto compiuto nel 1815, di cui si conserva il manoscritto autografo: Souvenir d’un voyage dans le Nord de l’Italie, o le 45 lettere all’amico Silvio Pellico, nelle quali la marchesa racconta le tappe dell’itinerario tra Roma e Napoli compiuto con il marito nel 1833) alle memorie, che rendono conto soprattutto del suo impegno nelle carceri, pubblicate per la prima volta da Giovanni Lanza nel 1887: Memorie, appunti e pensieri. Pare che Giulia avesse in mente di scrivere un’opera sulle Prigioni, che rimase incompiuta, e di cui ciò che si possiede costituirebbe la prima parte. Tra gli scritti di carattere letterario si ricordano: Raimondo il proscritto, Gaetano e la sua banda, Le pauvre de S.ta Croce. Uno scritto da non sottovalutare è inoltre il Testamento, redatto nel 1856 e rivisto con varie aggiunte fino al 1860: anche se non possedessimo altro documento del soggetto proponente all’infuori di questo, esso sarebbe sufficiente per capire la vastità e la portata del progetto sociale e educativo che nelle intenzioni depositate doveva andare (e per molti aspetti andò) oltre la sua morte, progetto articolato nei minimi particolari nella previsione di un futuro e assai probabile cambio di governo.
Innumerevoli le pagine destinate alle preghiere e alle meditazioni (riuniti sotto il titolo di Scritti spirituali), come anche numerosi sono gli interventi relativi alle opere di carità (Projet pour l’amélioration et la conservation de quelques œvres de charité, 1825, nel quale Giulia di Barolo torna sulla sua idea educativa delle carcerate e sui principi di base dell’igiene in quel contesto, da leggersi con la bozza di regolamento applicata all’interno del carcere che precisa le norme pratiche relative alla sorveglianza, all’insegnamento, alla distribuzione del lavoro, ai premi e ai castighi, alla preghiera e all’istruzione religiosa: Disposizioni riguardanti l’opera delle Suore di S. Giuseppe nel carcere delle Forzate). Ma la sua personalità emerge forte e determinata soprattutto nel vastissimo epistolario, composto dalla corrispondenza che Giulia mantenne con i famigliari, gli amici, con le Suore di S. Maria Maddalena, con politici e ecclesiastici, con i suoi stessi segretari. La già citata Suor Ave Tago, in Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, pubblica più di cinquecento lettere e scrive che «la maggior parte della corrispondenza è andata perduta, forse eliminata dai destinatari» (p. 474).
[1] Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago, pref. del Cardinale Paul Poupard, postf. di Angelo Montonati, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, pp. 520 e 523.
[2] https://www.inchiestaonline.it/donne-lavoro-femminismi/luisa-muraro-lordine-simbolico-della-madre/
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