L’amministratore delegato di Mps, Luigi Lovaglio, rivendica il forte razionale industriale di un’eventuale integrazione tra la rinata banca senese e Mediobanca, la storica banca d’affari creata da Enrico Cuccia nel 1946, difesa gelosamente e strenuamente nella sua indipendenza rispetto agli azionisti anche dai suoi successori Vincenzo Maranghi e Alberto Nagel, e ora sotto attacco.
La linea del Tesoro e di Palazzo Chigi
Ma è chiaro che un tale sconvolgimento del quadro finanziario italiano, contemporaneo all’ops di Unicredit su Banco Bpm, che parte da Milano e arriva fino a Trieste, sede delle Generali, non può non avere l’appoggio del governo.
E infatti il Tesoro, guidato dal ministro Giancarlo Giorgetti e azionista di Mps con l’11,7% e Palazzo Chigi, secondo quanto risulta a MF-Milano Finanza, sono favorevoli all’operazione che vede come protagonisti i due nuovi soci forti di Mps, ovvero Francesco Gaetano Caltagirone e la Delfin degli eredi Del Vecchio guidata da Francesco Milleri, importanti famiglie imprenditoriali italiane a loro volta da anni presenti nel capitale di Mediobanca (Del Vecchio al 19%, Caltagirone al 7,7%) e nella compagnia (Del Vecchio al 9,9%, l’editore-immobiliarista romano al 6,9%)
E il cuore della partita è, ancora una volta, il controllo delle Generali. Troppo forti sono state le critiche, troppo alte barricate alzate dal mondo (e dai giornali) di Caltagirone contro l’operazione di creazione di un polo da 1.900 miliardi di masse in gestione tra la francese Natixis e la compagnia triestina – di cui Mediobanca, primo azionista del Leone, è stato anche advisor – per non attendersi una reazione, anche in vista del rinnovo a maggio del board della compagnia stessa.
Che la reazione sarebbe passata da Mps, MF-Milano Finanza lo aveva scritto qualche settimana fa. Ma la strada non si è rivelata quella di entrare nel capitale della compagnia. Né quella di prendere una quota minoritaria di Mediobanca, come un’ipotesi avanzata più di recente da Il Giornale, sempre in ottica di contrastare quella che viene definita dai critici «uno spostamento del risparmio italiano in mani francesi». Se il progetto originario del terzo polo vagheggiato da Giorgetti prevedeva il coinvolgimento anche di Banco Bpm, l’ops di Andrea Orcel ha cambiato le carte in tavola. Ma non ha impedito il varo di un piano B.
La decisione, presa in un consiglio di amministrazione notturno giovedì 23, è stata di puntare al bersaglio grosso: la totalità di Mediobanca, anche se il boccone è più grosso in termini di capitalizzazione della banca che si propone di mangiarlo. Già una volta Siena, nel 2007, fece una mossa simile, con Antonveneta, e le andò male. Stavolta i soci sembrano con le spalle più larghe e pronti a sostenere la digestione di questo pasto.
Il razionale industriale, la difesa dei due brand
Alcuni banchieri sondati da MF-Milano Finanza e non coinvolti sulla partita, a caldo, non negano il forte senso industriale dell’operazione. Mps ha una grande rete distributiva, Mediobanca ha fabbriche-prodotto come credito al consumo, gestione del risparmio, una banca private e l’investment banking che si sposano bene con Siena.
«Vogliamo segnare un nuovo approccio nel percorso di consolidamento del settore bancario che in maniera innovativa crea valore da subito sia per gli azionisti di Mps che di Mediobanca, e ritengo anche per l’intero sistema Paese», ha detto Lovaglio nel comunicato sull’ops, «puntiamo a un nuovo campione nazionale, con due brand di eccellenza, che vogliamo proteggere e ancor più valorizzare».
Il ruolo del Leone
E in più c’è Generali che promette una messe di dividendi per sostenere i conti del nascituro terzo polo e oltre 1,2 miliardi di crediti fiscali (le DTA) da spendere nel capitale. E fra due anni, quando a Siena scadrà l’accordo di bancassicurazione con Axa, c’è una compagnia già candidata a prenderne il posto. Un’operazione tutta italiana, insomma, che crea un vero terzo polo alternativo a Intesa Sanpaolo e a Unicredit- Banco Bpm (se andrà in porto anche quest’ultima operazione). E che riporta nell’alveo romano una banca, che da tanto tempo manca alla Capitale. Ed è anche un completamento del cerchio per Caltagirone, che in Mps era entrato praticamente vent’anni fa per poi uscirne nel 2012 in perdita (tanto da aver fatto causa alla stessa banca per un risarcimento dei danni che non ha ottenuto).
Il premio del 5%, la difesa di Nagel. Il ruolo di Intesa Sanpaolo. E l’articolo quinto
Ma ci sono alcuni nodi da sciogliere. I numeri finanziari delll’ops sono considerati bassi, un premio del 5%, sia pure in linea con le operazioni recenti di Banco Bpm su Anima e di Unicredit sulla banca guidata da Giuseppe Castagna, forse sarà da rivedere. Il mercato potrebbe puntare a un rilancio, anche in una componente cash. Ma servirà un aumento di capitale di Mps, di cui non è ancora stabilito l’ammontare.
Nagel dovrà approntare le proprie difese. E non è un banchiere che non sa come si affronta una guerra, anche se questa volta deve combatterla in casa. Cercherà di smontare l’operazione proprio nel suo senso industriale, contestando la realizzabilità delle sinergie di ricavo e di costo e facendo leva sui fondi internazionali che da anni lo sostengono e gli riconoscono una leadership assoluta nell’istituto, grazie agli ottimi risultati portati. Poi bisognerà vedere se Mps otterrà l’autorizzazione della Bce, e che condizioni porrà al capitale. Anche i 2,5 miliardi di patrimonio in eccesso di Mps potrebbe essere consumato dall’abbinamento da riconoscere a Mediobanca, valorizzata sopra il book.
Non è chiaro come si muoveranno Unicredit – che però è sub judice del golden power del governo sul Banco – e Intesa Sanpaolo, silente e apparentemente immobile sul mercato italiano per ragioni antitrust, come più volte spiegato dal ceo Carlo Messina. C’è un altro protagonista altrettanto forte e anch’esso apparentemente defilato come Unipol con le sue propaggini Bper e Popolare di Sondrio. Potrebbe giocare anch’esso un ruolo? Dipenderà dalle scelte di Carlo Cimbri, molto vicino al mondo Mediobanca.
Di sicuro c’è che chi vorrà sedersi al tavolo dovrà mettere sul piatto miliardi di euro, suoi e degli alleati. In questa partita sembra sempre più valere la regola «dell’articolo quinto» citato da Cuccia: «Chi ha soldi, ha vinto». (riproduzione riservata)
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