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Ambrogio e Roberto, da narcotrafficanti all’impegno oltre il carcere




Questo articolo è la tappa di un viaggio nel mondo delle carceri alla ricerca di “punti di luce”, storie di persone nelle quali l’avere trovato ragioni di speranza, pur nelle difficili condizioni della detenzione, alimenta il desiderio di cambiare vita. Scopriamo che la persona non può essere definita dal suo errore, dal reato che ha compiuto, ma può sempre ripartire.

Nella vita ci sono momenti in cui il passato presenta il conto – un conto spesso doloroso – al presente. E il presente ne fa tesoro per provare a costruire un futuro diverso da quel passato. Sono momenti che la mente umana non sa prevedere, non sa neppure immaginare, ma che accadono. Forse perché c’è di mezzo un disegno misterioso, nel quale la resa dei conti si trasforma in un trampolino per la ripartenza, occasione per una rigenerazione umana. È quello che è accaduto ai protagonisti delle due storie che andiamo a raccontare, legate alla parola “droga”. Ambrogio e Roberto non ne hanno mai fatto uso ma la conoscono bene, è stata per tanti anni la loro fonte di arricchimento. Fino a quando è diventata il boomerang che li ha portati in carcere. Il curriculum di Ambrogio – da un anno tornato in libertà dopo dodici di reclusione – è segnato da diverse condanne, la più importante per traffico internazionale di stupefacenti. Arrestato in Germania nel 2011, conosce le carceri di Rebibbia, Vibo Valentia, Reggio Calabria, Opera.

È lì che si imbatte nell’altra faccia della sua attività, qualcosa che prima volutamente ignorava: è il volto allucinato e scavato dei tossicodipendenti incontrati in prigione, la sofferenza di quanti non ce la fanno a campare senza le sostanze. Disposti a tutto, anche a commettere reati. «Come Ruggero, 19 anni, che non riesce più a saldare i debiti con il pusher, e una sera per procurarsi il denaro rapina un benzinaio, gli mette la pistola alla tempia, quello reagisce, lui spara, l’ammazza, si becca l’ergastolo. Quando sono finito in carcere ho visto con i miei occhi gli effetti devastanti di quella che per tanti anni ho sciaguratamente considerato un’attività imprenditoriale. Ho avvelenato migliaia di persone, però io non le vedevo, non le conoscevo: mai venduto neppure un grammo, non mi sporcavo le mani con lo spaccio, me ne stavo beatamente molto più in alto, dirigevo il traffico tra Sudamerica e Italia, importavo veleno senza pensare a chi lo assumeva. Con il denaro guadagnato ho fatto la bella vita – Caraibi, Brasile, barche, compagnie allegre… – e procurato morte. Poi, in carcere, arriva quella che considero una specie di pena del contrappasso: l’impatto con le vittime delle mie imprese, la presa d’atto del male compiuto, lo schifo provato per la mia persona. Per mesi facevo la barba nella doccia, non avevo il coraggio di guardare la faccia allo specchio… Anni di carcerazione trascorsi maledicendo il mio passato».

È proprio dallo schifo per il passato e dalla compassione per le vittime dei suoi reati che fiorisce il desiderio di cambiare. «Non potevo rimediare al male che avevo procurato ma volevo abbracciare la loro fragilità, rendermi utile in qualche modo. E il Principale mi è venuto incontro, ha mostrato una strada». Lo chiama così – “il Principale” – quel Dio che si è manifestato con una proposta inattesa che ha acceso la fiammella della speranza nel buio della detenzione. Grazie all’amicizia con i volontari dell’associazione Incontro e Presenza che lo vanno a trovare in carcere – «i miei angeli custodi, non mi hanno mai mollato» – incontra Davide, responsabile della cooperativa sociale Pandora che gli propone di lavorare all’accoglienza in un centro che aiuta le persone prigioniere della dipendenza da sostanze. È il primo vero lavoro di Ambrogio, dopo tanti anni da trafficante professionista. Ottiene l’applicazione dell’articolo 21, la norma dell’ordinamento penitenziario che autorizza i detenuti a svolgere attività fuori dal carcere, e a settant’anni inaugura una nuova stagione della vita: ogni giorno ottanta minuti di viaggio da Opera al luogo di lavoro in via Ventura, periferia di Milano, tre autobus, 48 fermate, l’ebbrezza dei primi assaggi di libertà. «Ancora una volta, come era accaduto in galera, vedevo passare davanti ai miei occhi le vittime delle mie malefatte. Ogni volta mi sentivo giudicato, provavo vergogna e insieme il desiderio di abbracciarle e di tentare una sorta di riparazione. In quei mesi è accaduto qualcosa di nuovo, è cresciuta la volontà di essere utile, finalmente mi sentivo in pace. Con molti di loro è nata un’amicizia, dopo qualche mese mi hanno proposto persino di gestire alcuni incontri di autocoscienza in cui potessero condividere i loro trascorsi e cercare strade per uscire dalla dipendenza. Cose da non credere: il Principale aiutava le vittime servendosi del loro carnefice. Non c’è limite alla fantasia di Dio…».

Anche Roberto ha vissuto in carcere il suo personale contrappasso. Trafficante internazionale di stupefacenti ad altissimo livello, un’esistenza con l’unico pensiero di accumulare denaro e di condurre una vita da nababbo, dopo l’arresto nel 1997 viene condannato a 22 anni di carcere quando ne aveva 50. La prima notte passata a Regina Coeli lo costringe a misurarsi con le vittime dei suoi reati. «Nella cella che condividevamo, due giovani in preda a crisi d’astinenza picchiavano sul blindo urlando come dei dannati. “Guarda cosa ho combinato”, mi sono detto. Il male compiuto presentava il conto e mi costringeva a rendermi conto del dolore che avevo provocato. In carcere cominci a pensare, ti guardi dentro e ti chiedi: cosa ho fatto della mia vita? Dovevo uscire dal vicolo cieco in cui mi ero cacciato pensando solo a me stesso. La chiave per farlo? Lo studio». Da giovane aveva già preso il diploma di geometra, ma a scuola era sempre andato senza entusiasmo. Nel carcere di Viterbo dove viene trasferito chiede di iscriversi al liceo classico, il direttore si stupisce di una proposta così impegnativa ma accetta, Roberto diventa un studente modello «perché leggere le opere dei greci e di grandi filosofi è stato come aprire gli occhi sul mondo, imparare a usare la ragione, conoscere se stessi e il valore dell’altro e smettere di guardarsi allo specchio. Mi aspettava una lunga detenzione ma mi sentivo libero dentro e non sopportavo l’idea di passare le giornate sdraiato in cella su una branda fantasticando su un futuro lontanissimo».

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Lo studio diventa il trampolino per la sua ripartenza, viene trasferito alle Vallette di Torino dove diventa il primo detenuto a frequentare l’università, si laurea in giurisprudenza e scienze politiche. Nel 2008 comincia a uscire con permessi di studio e di lavoro presso la Caritas che gli offre la possibilità di mettere a frutto la conoscenza delle lingue maturata nella lunga militanza malavitosa in giro per il mondo e di realizzare il desiderio di praticare il bene dopo tanto male seminato con i suoi traffici. Comincia a prendere forma la parabola del suo riscatto, diventa realtà la speranza di una vita pulita. «Quando mi hanno arrestato possedevo un capitale di 23 milioni di dollari, oggi campo con 500 euro al mese: va bene così, ho scoperto il valore dell’essenziale». La moglie vive negli Stati Uniti (dove Roberto aveva una delle sue basi operative), il figlio – ironia della sorte – è un poliziotto della sezione narcotici dell’Fbi. Nel 2013 ha riconquistato la libertà, oggi a ottant’anni suonati ogni mattina è al lavoro negli uffici della Caritas di Torino: cura la rassegna stampa giornaliera e incontra migranti provenienti da ogni latitudine, grazie alle due lauree e alla conoscenza di sette lingue offre i suoi servigi per traduzioni e pratiche burocratiche, collabora con il settimanale diocesano La Voce del tempo, incontra gli studenti nelle scuole e dice ai giovani di non inseguire le sirene del successo a buon mercato e di non prostrarsi al dio denaro. «Dio, quello vero, è venuto a ripescarmi dalla palude in cui ero sprofondato. Non è stato un caso, è stata la Provvidenza che ha trasformato la carcerazione in un’occasione per meditare sulle mie malefatte e per cominciare a cambiare vita. Ora cerco di essere un testimone del bene».

(2 – continua)

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