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Speranze, preoccupazioni e qualche goccia di normalità nel fragile cessate il fuoco a Gaza


La pace è fatta di gocce di normalità. I cioccolatini per i bambini, avere un bagno vero e soprattutto una casa, anche se interamente da ricostruire.

Parlare di pace è ancora prematuro, il cessate il fuoco entrato in vigore il 19 gennaio tra Israele e Hamas è fragilissimo e fino all’ultimo ha rischiato di saltare, secondo Israele, perché Hamas avrebbe fornito in ritardo la lista dei primi tre ostaggi israeliani, tutte donne, che ha poi effettivamente liberato, in cambio di 90 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, in condizioni palesemente peggiori delle prime. 

Il testo degli accordi (identico a quello già presentato nel maggio 2024 dall’ormai ex presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, con migliaia di vittime che si sarebbero potute risparmiare) prevede tre fasi “per lo scambio di ostaggi e prigionieri e il ripristino di una calma sostenibile che porterebbe a un cessate il fuoco permanente”.

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Trentatré gli israeliani da rilasciare nella prima fase, in cambio di migliaia di palestinesi. Le forze israeliane da subito devono ritirarsi dalle zone abitate, per posizionarsi verso il confine e dal 42esimo giorno anche dal corridoio Filadelfia, al confine dall’Egitto, per andarsene del tutto il 50esimo.  

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Dopo una settimana, gli sfollati potranno tornare a Nord e i feriti e malati civili potranno uscire dal valico di Rafah, dove i militari israeliani rimarranno in parte insieme agli egiziani. La prima tappa degli accordi dura 42 giorni e attorno al 4 febbraio dovrebbero iniziare i negoziati per le successive.  

La riuscita è ardua e sia il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, sia il ministro della Difesa, Israel Katz, non hanno fatto altro che precisare quanto siano pronti a riprendere i combattimenti al minimo sgarro di Hamas, tanto che in molti tra gli stessi israeliani restano scettici. Gli Accordi di Oslo (ne abbiamo parlato nel podcast “Oslo 30”) hanno insegnato che i negoziati a tappe rischiano di essere solo un’illusione.

Una vista di Rafah, a Sud della Striscia di Gaza, il 19 gennaio 2025 © Omar Ashtawy apaimages/SIPA / ipa-agency.net / Fotogramma
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Una vista di Rafah, a Sud della Striscia di Gaza, il 19 gennaio 2025 © Omar Ashtawy apaimages/SIPA / ipa-agency.net / Fotogramma

Ovviamente è un buon segno il fatto che ci stiamo muovendo verso la fine dei combattimenti e l’inizio del rilascio degli ostaggi -commenta lo storico israeliano Ilan Pappé-. Penso che sia importante aspettare e vedere se viene realmente implementato l’accordo. C’è un periodo molto lungo anche solo per attuare la prima fase, ma è uno sviluppo positivo, nella giusta direzione. Niente di tutto ciò, ovviamente, ha a che fare con i problemi fondamentali tra Israele e Palestina, ma almeno offre qualche speranza per una minore violenza verso i palestinesi a Gaza e un ritorno dei rifugiati. Anche se, data la costellazione politica all’interno di Israele, penso che Netanyahu speri ancora che dopo la prima fase o anche dopo la fine dello scambio degli ostaggi, sarà in grado di continuare la guerra a Gaza, ma adesso potrebbe essere più difficile”.  

Ora è il tempo del sollievo e soprattutto del ritorno a casa. “Quando è stato annunciato il cessate il fuoco la gente era molto contenta -racconta Sami Abu Omar, operatore della Ong Acs da Gaza-. Siamo usciti tutti per strada e c’era chi sparava per aria, chi andava in motocicletta e chi lanciava fuochi d’artificio. La gente dopo tanto tempo si è sentita viva, perché nei quindici mesi della guerra era come già morta, aspettava la morte da un momento all’altro. La gioia è stata incredibile, soprattutto delle donne e dei bambini: hanno cominciato a cantare le canzoni che dicono che i palestinesi vogliono tornare, soprattutto quelli del Nord della Striscia, perché hanno lasciato le loro case all’inizio della guerra e non sanno cosa è successo. In alcuni casi sono arrivati i genitori senza i figli, che sono rimasti al Nord, in altri, i bambini sono venuti senza i genitori. Io mi sono sentito davvero molto contento -continua Abu Omar- finalmente finisce questo genocidio, ho pensato, abbiamo davvero subìto di tutto. I bambini dicevano che potevano andare a scuola e che se avessero aperto i confini finalmente sarebbero entrati i cioccolatini. Sono 15 mesi che non mangiano un cioccolatino. Appena annunciato l’accordo, i prezzi sono scesi e le cose costano già la metà. Sono andato al mercato ed era pieno di prodotti a prezzi bassi, certo non come una volta, bassi rispetto al periodo della guerra. Per esempio, un sacco di farina, che costava 700 sheckel, ieri costava 155 e c’era il pollo, che non abbiamo visto per tutti questi mesi. Sono molto contento, anche se non ho più una casa, ma la casa la posso costruire, perché non abbiamo mai perso la speranza. Vogliamo continuare a vivere questa gioia, finalmente è finita”. 

Tra gli italiani presenti a Gaza c’è anche il team di Emergency, entrato il 15 agosto 2024. “Sono arrivato a inizio gennaio di quest’anno -racconta Francesco Sacchi, attuale capo missione- ma collaboro al progetto da giugno 2024, prevalentemente da Amman, in Giordania, dove Emergency ha stabilito la propria base logistica e da dove i convogli delle Nazioni Unite partono e arrivano per il trasporto degli internazionali verso e dalla Striscia. Quello che mi ha immediatamente colpito è stata l’incredibile devastazione nel tragitto che porta alla zona umanitaria: si fa effettivamente fatica a trovare anche un solo edificio che non sia stato interessato dai bombardamenti. Il nostro alloggio si trova a Deir al Balah, all’interno della cosiddetta zona umanitaria, ogni mattina il nostro team si reca presso la clinica, dove attualmente stiamo supportando le attività di assistenza sanitaria di base alla popolazione, in collaborazione con un’organizzazione umanitaria palestinese. Oltre a questo, stiamo facendo continui sopralluoghi presso la clinica che abbiamo costruito in questi mesi e che a giorni inizierà le attività di assistenza sanitaria di base alla popolazione. Inoltre, stiamo ultimando le selezioni del personale palestinese, sanitario e non, che supporterà le attività cliniche”. 

“Già da giorni -continua Sacchi- circolavano notizie di una possibile tregua e potevamo udire la gioia e la distensione delle persone, soprattutto dalle numerosissime tendopoli di sfollati che si trovano qui nella Striscia. La sera dell’annuncio la gioia si è intensificata e questo ha contrastato con il continuare dei bombardamenti che, anche la sera stessa hanno proseguito, così come il giorno dopo”.  

Dall’annuncio all’entrata in vigore effettiva della tregua, sono morti almeno altri 123 palestinesi, tra le tante vittime che si sarebbero potute evitare.

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“L’incredibile devastazione causata dai bombardamenti nella Striscia -conclude Sacchi- porta in primo piano un’emergenza che si va a affiancare a quelle già da tanto presenti, come la manutenzione o l’accesso alle cure primarie e secondarie o ai farmaci di base. L’emergenza ora è anche per le abitazioni, quindi ci immaginiamo un futuro molto complicato dal punto di vista della ricostruzione e del poter ridare a queste persone un alloggio dignitoso dove poter vivere”.

Secondo le Nazioni Unite, infatti, a Gaza il 60% degli edifici sono stati distrutti o danneggiati. Alcune zone sono state completamente rase al suolo. 

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