Il videogame outsourcing è una pratica ormai radicata nell’industria videoludica, caratterizzata dall’esternalizzazione di parti del processo di sviluppo a studi esterni specializzati. Questa strategia consente alle aziende di risparmiare risorse, ottimizzare i costi e accedere a competenze altamente specifiche che non possiedono internamente. Le aree più comuni coinvolte includono la creazione di asset, animazioni, sviluppo di livelli, coding, localizzazione e test di qualità. Soprattutto nei giochi tripla A, questa modalità è fondamentale per gestire la complessità dei progetti, arrivando a coinvolgere decine di studi esterni per un singolo titolo, come dimostrato da giochi come Starfield ed Elden Ring.
Tra gli studi che si occupano di sviluppo in outsourcing per i videogame, alcuni scelgono deliberatamente di rimanere anonimi, una pratica nota come ghost development. Questi studi non vengono accreditati nei titoli di coda per proteggere l’immagine del committente. In Giappone, questa pratica è particolarmente diffusa, con aziende come Tose che hanno contribuito allo sviluppo di oltre mille giochi, inclusi titoli iconici come Final Fantasy, Dragon Quest e Super Mario. Tuttavia, la mancanza di riconoscimenti ufficiali può penalizzare gli sviluppatori, rendendo difficile costruire un portfolio e ostacolando le opportunità di carriera. Inoltre, questa mancanza di trasparenza può talvolta favorire condizioni di lavoro ingiuste, in cui i dipendenti non ricevono il riconoscimento meritato.
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Un aspetto inquietante legato al videogame outsourcing è il fenomeno del crunch, ovvero periodi di lavoro intensivo in cui i dipendenti possono arrivare a lavorare fino a 100 ore a settimana per mesi. Nonostante le dichiarazioni dei CEO che promettono di limitare queste pratiche, il crunch rimane una realtà comune, spesso alimentata dalle richieste pressanti dei publisher. Questo fenomeno è particolarmente diffuso in aree come il Sud-Est Asiatico, dove i costi sono più bassi e le normative sul lavoro meno rigide. In paesi come la Malesia e l’Indonesia, gli sviluppatori affrontano lunghi periodi di crunch senza essere adeguatamente compensati, spesso spinti dal desiderio di avanzare nella propria carriera in un’industria altamente competitiva.
In queste regioni, i grandi publisher occidentali possono scegliere tra centinaia di studi disponibili, costringendo le aziende locali ad accettare condizioni contrattuali al ribasso. Questo porta inevitabilmente a carichi di lavoro insostenibili per i dipendenti, che, pur di non perdere il progetto, lavorano anche nei fine settimana senza straordinari. I salari sono spesso molto bassi, intorno ai 300-500 euro al mese, senza possibilità di promozioni. Persino studi affermati, come LemonSky e Brandoville, che hanno lavorato su titoli di successo come Demon’s Souls Remake e The Last of Us 2, sono noti per queste pratiche.
Un esempio emblematico di abusi nel settore del videogame outsourcing è rappresentato dal caso di Brandoville Studios in Indonesia. Secondo un’inchiesta condotta da People Make Games, all’interno di questo studio si verificavano episodi di violenza fisica e psicologica nei confronti dei dipendenti. La concept artist indonesiana Christa Sydney è stata una delle principali vittime, sottoposta a umiliazioni pubbliche, minacce e pratiche degradanti da parte della manager Cherry Lai. Quest’ultima, approfittando della sua posizione di potere, ha imposto regole oppressive, come orari rigidi per bere acqua e dormire, sessioni di preghiera forzata e punizioni fisiche.
Le testimonianze dei dipendenti hanno rivelato una realtà scioccante: sessioni di lavoro monitorate anche di notte, umiliazioni pubbliche, insulti e minacce costanti. Cherry Lai avrebbe addirittura costretto Christa a schiaffeggiarsi fino a sanguinare e a scrivere frasi denigratorie su se stessa centinaia di volte. La situazione è degenerata a tal punto che molti dipendenti sono stati spinti a lavorare in condizioni disumane, con episodi che hanno portato persino a ricoveri ospedalieri. Questo sistema di abusi era tollerato dai vertici aziendali, che chiudevano un occhio pur di rispettare le scadenze dei progetti commissionati dai grandi publisher occidentali.
Il caso di Brandoville Studios non è un caso isolato. Le pratiche di videogame outsourcing e il crunch sono diventate una norma non dichiarata nell’industria videoludica, con studi esterni che sopportano il peso maggiore delle richieste dei publisher. Secondo le analisi di mercato, circa il 70% dei giochi tripla A degli ultimi dieci anni ha coinvolto studi di outsourcing per lo sviluppo di aspetti fondamentali. Tuttavia, i grandi publisher tendono a ignorare le condizioni di lavoro nei Paesi in cui operano questi studi, preferendo risparmiare sui costi piuttosto che garantire standard etici.
Questo sistema evidenzia una profonda disfunzione nel settore videoludico, dove il profitto è spesso prioritario rispetto ai diritti dei lavoratori. Sebbene alcuni publisher dichiarino di voler migliorare le condizioni di lavoro, molte delle loro promesse restano vuote, con i carichi di lavoro eccessivi che vengono semplicemente delegati agli studi esterni. Questo consente loro di mantenere un’immagine positiva presso media, governi e sindacati, mentre sfruttano lavoratori in Paesi con normative deboli.
Un altro aspetto preoccupante è la mancanza di attenzione da parte dei media. Nonostante alcune inchieste indipendenti abbiano fatto luce su queste problematiche, il giornalismo videoludico tradizionale tende a ignorarle. Le storie di abuso e sfruttamento vengono spesso oscurate da notizie meno rilevanti o da controversie che distolgono l’attenzione dai problemi reali.
È chiaro che il cambiamento è necessario per creare un’industria videoludica più giusta ed etica. I grandi publisher devono assumersi la responsabilità delle proprie azioni e garantire che i loro partner rispettino standard etici minimi. Allo stesso tempo, i giocatori devono diventare più consapevoli e scegliere di sostenere studi e publisher che adottano pratiche responsabili. Infine, è essenziale promuovere un dibattito globale sulla regolamentazione del settore, con l’obiettivo di creare standard internazionali che proteggano i lavoratori, anche nei mercati emergenti.
Il videogame outsourcing non è solo una strategia di sviluppo, ma un elemento centrale dell’industria videoludica moderna. Tuttavia, il suo utilizzo indiscriminato e le condizioni di lavoro spesso disumane associate richiedono un’azione collettiva per garantire un futuro più sostenibile. Ogni gioco ha una storia, e quelle dei lavoratori che li realizzano meritano di essere raccontate e rispettate. Solo attraverso la consapevolezza e l’impegno possiamo trasformare l’industria in una comunità più etica e creativa.
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