Nel corto circuito tra legge marziale e K-pop, la Corea mostra sempre la stessa faccia: quella che sotto le creme della K-beauty è pulita, fresca, giovane, elastica e soprattutto molto, ma molto brillante.
Le mosse semplici e melense dei balletti, le pubblicità che spiegano come detergere il volto in sei fasi per mandare a stendere il tempo e quella K che racconta di gonne a pieghe e stivali al ginocchio, di serie tv furibonde, di tournée infinite non sono affatto un concentrato di superficialità, sono l’opposto: un sistema culturale. Identità al Paese prima oppresso e poi torturato dal senso di inferiorità. Il fattore K è il potere leggero, quel soft power che dopo la guerra degli Anni Cinquanta è diventato il mezzo per emanciparsi, per avere un’anima e un nome. Per dare una direzione economica che ha nutrito la forza creativa della tecnologia con la musica.
Il K-pop nasce all’inizio degli Anni Novanta ed è da subito un legame con gli Usa che lo adottano e lo moltiplicano. Un’affinità elettiva che parte da un terreno solido. Nomi coreani stavano nei cartelloni degli spettacoli a Las Vegas 70 anni fa, cercate Kim Sisters, non a caso definite «l’essenza del dinamismo coreano». Il K-pop non cade dalla luna, ma dal bisogno di esprimersi con tratti propri, diversi dai manga giapponesi, lontani dalle divise militari ed è proprio per questo che la gente è scesa in strada inorridita davanti all’annuncio dalla legge marziale, perché il K-pop ha trainato il concetto di libertà e di liberismo, ha forgiato anche una coscienza civile. Il K-pop non è solo musica sdolcinata per adolescenti, quella è la base, tra l’altro accentuata per dare uno sfondo comune a una generazione, per inventare gesti immediati da scambiarsi dentro ai locali dedicati al culto del caffè. Certo, pure quelli molto zuccherati. Con il caramello e le essenze ai lamponi, però tutta la dolcezza sparsa in questo sistema si contrappone decisa a tempi amari, al sacrificio, alla solitudine, al silenzio, alla vergogna. Oggi ci si mette il glitter sulle guance (dopo le sei fasi di preparazione, ovvio) ed è una cerimonia del trucco e dello strucco che richiede impegno e prende tempo. Tempo dedicato a sé. Dall’altra parte della Corea, in quella della Nord, non esiste la declinazione singolare. Sono tutti vestiti e pettinati allo stesso modo, mentre la Corea del Sud scopre un individualismo in cui però condividere la moda, la danza, lo slang.
Esiste una legge che spiega benissimo la reazione alla sterzata del presidente Yoon Suk-yeol: la Bts, dal nome della K-band più famosa. Loro, da soli, nel 2023 hanno mosso l’economia con 3,5 miliardi e anche per questo battezzano l’emendamento per cui una riconosciuta e premiata figura del K-pop può rinviare la leva obbligatoria fino ai 30 anni. Succede perché gli interpreti sono ambasciatori. Creano un tessuto sociale all’interno, cantano di depressione scolastica, di bisogno di sentimenti sfacciati lì dove l’educazione prevede (o prevedeva) un rigoroso contegno. Tutto pronto a sfaldarsi in modo catastrofico, come ci ha mostrato il film da Oscar «Parasite», eppure retaggio che le ultime generazioni hanno spostato a forza di balletti. Il K-pop viaggia fuori dal Paese e lì si fa diplomazia, arriva alle più impensabili intese. Le Red Velvet, gruppo femminile, in concerto a Pyongyang con stretta di mano al dittatore Kim Jong-un. Gli Exo, icone delle Olimpiadi invernali del 2018 e adorati da Trump o dalla figlia Ivanka, l’effetto è lo stesso.
Il successo del genere si chiama Hallyu Wave ed è davvero un’onda che incamera energie e linfa all’estero per tornare in patria più influente: mescola, apre però con simboli e intenzioni profondamente coreani. La raccolta fondi per gli orfani di guerra, per le donne sfruttate dal Giappone è stata affidata agli idoli pop che infatuano i ragazzini e si prendono cura della memoria. La cultura K è in totale contrasto con la legge marziale che ha spinto la gente in piazza. Le stesse facce che stanno davanti allo specchio a provare le coreografie e a testare il siero glow. Fieramente made in Korea, uno stato che vogliono difendere.
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