Il presidente eletto ridimensiona il ruolo del patron di Tesla che ora ostenta modestia: «Ho dato qualche consiglio, ma tutte le decisioni spettano al presidente»
NEW YORK – Addio al Musk «copresidente»: sulla scelta più importante, quella del ministero del Tesoro, Donald Trump smentisce platealmente Elon. Non è rottura, ma adesso il rapporto tra i due può funzionare solo se il cittadino non eletto più potente della storia americana fa un passo indietro.
E la sensazione è che Musk si stia rendendo conto della situazione: violentando il suo narcisismo, mettendo sottochiave la sua natura guascona, sta abbassando il suo profilo. Basterà? Durerà? Una settimana fa la sua presenza asfissiante a fianco di Trump si era trasformata in sfida aperta al presidente eletto: Elon Musk aveva bocciato il suo candidato al Tesoro, Scott Bessent, sostenendo che avrebbe portato l’economia americana alla bancarotta. Poi il rilancio del suo preferito: il capo di Cantor Fitzgerald, Howard Lutnick. Il rivoluzionario della Silicon Valley si diceva deciso a portare la sua disruption anche a Wall Street attraverso Lutnick in formato Terminator. E, per forzare la mano a Trump, proponeva uno dei suoi sondaggi online: una caricatura di democrazia diretta nella quale Musk chiede ai suoi followers di votare sulle sue proposte.
Ma Trump, che vuole demolire le strutture amministrative laddove ritiene che si annidi quello che lui chiama deep state, ma non ha alcuna intenzione di traumatizzare Wall Street avendo un sacro rispetto per la Borsa, lo ha sconfessato: prima mandando Lutnick al Commercio, poi incoronando quello che secondo Musk sarà «il ministro della bancarotta».
Apparentemente Musk ha inghiottito il rospo. Per giorni ha detto pubblicamente la sua su tutte le nomine attribuendosi anche il merito di qualche bocciatura, ma adesso ostenta modestia: «Ho dato qualche consiglio, ma tutte le decisioni spettano al presidente». Sbarcando a Mar-a-Lago aveva probabilmente sopravvalutato la sua capacità di influenzare Trump scavalcando i suoi consiglieri storici. Deciso a utilizzare le sue competenze imprenditoriali e tecnologiche per rivoluzionare lo Stato, in pochi giorni vissuti nel quartier generale trumpiano Musk, nuovo arrivato tra gente che ha rapporti profondi col leader, consolidati da anni di collaborazione, si è reso conto di aver bisogno di competenze di ingegneria sociale più che missilistica, se vuole consolidare la dimensione politica che sta cercando di conquistare.
Così viene il momento della modestia: nell’articolo, scritto con Vivek Ramaswamy e pubblicato dal Wall Street Journal nel quale spiega l’obiettivo della sua missione nella struttura amministrativa federale, si presenta come un volontario esterno al governo che affiderà le sue proposte al responsabile del Bilancio della Casa Bianca e concluderà la sua missione riformatrice il 4 luglio del 2026, quando gli Stati Uniti celebreranno il loro 250esimo compleanno. Musk non più copresidente. Ridimensionamento, ma non marginalizzato.
La sua influenza rimane: Trump è andato fino al poligono texano di Space X per assistere a un altro lancio sperimentale (solo parzialmente riuscito) dell’astronave Starship. E il New York Times ha intercettato un rapporto ai suoi clienti nel quale l’ex capo di gabinetto di Trump, Mike Mulvaney, oggi lobbista nel settore privato, scrive che Musk, insieme ad altri importanti imprenditori e finanzieri delle tecnologie digitali, da Marc Andreessen, a David Sacks e a Joe Lonsdale, «hanno un’influenza sulla preparazione del secondo mandato di Trump alla Casa Bianca che non ha precedenti nei rapporti tra business leaders e politica».
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